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domenica, Aprile 20, 2025

    Lo dico a Facebook

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    Stavo ripercorrendo alcuni episodi che ultimamente hanno riempito le cronache. Impressionanti  per le modalità con le quali gli assassini sono giunti al passo finale. Le intenzioni rese note sui social, prima, e anche dopo, lucidamente, perché  probabilmente dà una certa ebbrezza, una sorta di onnipotenza.

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    Vi ricordate quel giovane che uccise l’amico reo di avergli insidiato la ragazza, e a cose fatte riprese la propria confessione per metterla su Facebook? Disse: “Ho fatto una cazzata”. Impressiona il delitto tanto quanto la necessità di pubblicarlo: il social spazza tutto attorno e pretende attenzione anche in una situazione simile. Mano ferma e cellulare ben posizionato, guida tranquilla e voce chiara, quasi una recita, senza tentennamenti. Vite interrotte.

    Pensavo a quel papà che ha ucciso i propri figli, e poi l’ha fatta finita, nel lecchese. Com’erano belli Elena e Diego; anche lì c’è l’annuncio che precede la fine, la necessità di comunicare alla madre che non li avrebbe più rivisti, la certezza dell’orrore provocato nel leggere una cosa simile.

    Pensavo a quella mamma in Sicilia, e al suo bambino, ai giorni di ricerche per trovarli poi senza vita, inspiegabilmente, senza motivo apparente se non la follia, forse nata e cresciuta da tempo, lentamente, che probabilmente, leggendo e osservando più attentamente ciò che la mamma postava, avrebbe potuto essere intercettata,  ma non è andata così. Com’erano belli Viviana e Gioele.

    Pensavo a quel padre, nel torinese, che spara al figlio e poi a se stesso, ma non senza prima scrivere, divulgare, rendere nota la sua intenzione al mondo intero: che tutti sappiano ciò che sta per accadere, tutto è già deciso; ed anche in questo caso un uomo ha trascinato con sé il bene più grande, innocente, puro. C’è da dar di matto nel cercare di capirne le ragioni, ammesso che si possano definire tali, per le quali una persona ad un certo momento voglia dare più dolore possibile.

    Pensavo alle cronache degli ultimi tragici tempi: un giovane, l’ennesimo giovane, uccide la sorella colpevole di avere una relazione a lui non gradita; come prima: non mi piace e ti uccido, e trascino tutti dietro, con la consapevolezza del disastro fatto dura a venire a galla, tanto qualcuno capirà, comprenderà e mi assolverà. Qui non ci sono annunci sui social, cambia l’impostazione, ma l’orrore è lo stesso.

    Pensavo all’ultimo (orrore), a quei due violenti che si sono accaniti fino ad uccidere quel ragazzino a Colleferro: se quei due padri hanno cresciuto dentro di loro la folle disperazione (sempre ingiustificabile) qui siamo ad un estremo che non trova parole per essere descritto. Questi due fratelli (umani, mostri, assassini?) hanno mostrato una brutalità che non è nemmeno immaginabile: hanno messo in mostra, a modo loro, ciò che hanno “imparato” in fatto di arti marziali. Ho sempre creduto che per praticarle ci volesse autocontrollo, disciplina ferrea.

    Sicuramente è così, ma se innestate in soggetti del genere (energumeni, feccia, rifiuti), diventano letali: tralasciamo la dinamica dell’accaduto, e tralasciamo l’evidentissimo terrore che li pervade, ora che sono in gabbia (avete in mente altri posti?), e sorvoliamo sulle dichiarazioni del loro avvocato, c’è da riflettere sul dove tutto ciò abbia origine. In poche parole: perché siamo ridotti così. Ultimo in ordine di tempo: l’omicidio con decine di coltellate dei due giovani, Daniele ed Eleonora: uccisi perché erano felici, e questo a qualcuno faceva rabbia . Tutto qui.

     L’uccidere è visto come la soluzione unica, quasi naturale: definitiva per risolvere qualcosa che altrimenti richiederebbe tempo, discussioni. E, come hanno mostrato gli energumeni di Colleferro, torna utile anche per togliere di mezzo chi non è gradito.

    Sono tutti casi diversi per cause e modalità ma il finale è stato sempre quello senza ritorno. Cosa è venuto a mancare ? Prima di quell’attimo definitivo, prima di premere il grilletto e sparare, o colpire con forza sferrando il colpo mortale, che cosa è mancato per fermare l’irreparabile?

    Dove nasce l’incapacità di sostenere una conversazione civile anche con idee molto diverse, e dove nasce la sensazione irrazionale che tutto possa terminare come in un videogame ?

     

     

    Luciano Simonetti

     

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    Luciano Simonetti
    Luciano Simonetti
    Sono Luciano Simonetti, impiegato presso una azienda facente parte di un gruppo americano. Abito a Caselle Torinese e nacqui a Torino nel 1959. Adoro scrivere, pur non sapendolo fare, e ammiro con una punta di invidia coloro che hanno fatto della scrittura un mestiere. Lavoro a parte, nel tempo libero da impegni vari, amo inforcare la bici, camminare, almeno fin quando le articolazioni non mi fanno ricordare l’età. Ascolto molta musica, di tutti i generi, anche se la mia preferita è quella nata nel periodo ‘60, ’70, brodo primordiale di meraviglie immortali. Quando all’inizio del 2016 mi fu proposta la collaborazione con COSE NOSTRE, mi sono tremati i polsi: così ho iniziato a mettere per iscritto i miei piccoli pensieri. Scrivere è un esercizio che mi rilassa, una sorta di terapia per comunicare o semplicemente ricordare.

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