Vista, purtroppo, la perdurante situazione, non so come e quanto verrà celebrato il prossimo 25 Aprile. Non vorrei che si cogliesse la palla al balzo e si sdoganasse l’inizio dell’oblio, con buona pace dell’ultradestra e dei vellicatori di panze, secondo i quali, andando di grana grossa, “ il fascismo ha fatto anche cose buone”: in vent’anni di dittatura era praticamente impossibile non realizzare anche qualcosa di buono, ma il saldo positivo è marginale rispetto alla negazione della libertà, al trascinamento nel gorgo d’una guerra folle, all’emanazione delle leggi razziali: ad un retaggio che non abbiamo ancora smesso di pagare.
Qualcuno dice che sono “ già” passati settant’anni: forse è meglio continuare a dire che ne sono trascorsi “solo” 70 dal periodo più nefasto, dove le balle raccontate dal regime in orbace ci hanno condotto alla disfatta prima e alla guerra civile poi.
Si rileggano ogni tanto le lapidi incastonate in municipi e monumenti: non sono mute, urlano ancora il nome di coloro che sono stati immolati sull’altare della stupida follia e della folle stupidità, o il nome di quelli che, per dignità e voglia di riscatto, vollero, a costo della vita, opporsi al giogo dei nazifascisti.
Giova ricordarlo e ripeterlo: se adesso a qualcuno è concesso sproloquiare, proferire in delirio è perché c’è stato qualcun altro capace di lottare per restituirci libertà e democrazia, per donarci libertà d’espressione e di parola.
Ecco perché occorre continuare a resistere. Resistere al desiderio d’oblio, alla voglia di mettere tutto in un unico calderone, di voler accomunare vittime e carnefici, di negare che ci sia stata una parte giusta e una sbagliata. Certo, non è corretto condannare a priori chi ebbe il torto di credere alla fuffa, alla propaganda e, infatuato, cresciuto nella sola ottica fascista, sposò un’altra idea, così come non si può negare che tanti errori vennero fatti da chi stava dall’altra parte della barricata, però ciò che non può essere messo in discussione è perché arrivammo a tanto.
Se ancor oggi siamo quel che siamo, lo si deve a ciò che fummo. La storia ha correnti profonde, lontane dalla superficie, che condizionano decenni.
La nostra è ancora una nazione lacerata, e troppe decisioni sono state dettate da ciò che fummo chiamati a vivere nella prima parte del ‘900.
La scarsa conoscenza, la relegazione dello studio della storia a poco più d’un orpello stanno contribuendo in modo drammatico a una conversione verso derive preoccupanti.
Il periodo pandemico sembra favorire certe voglie di semplificazione.
Un anno di difficoltà ci ha stremato, ma non per questo dobbiamo abbandonarci all’allontanamento dalla ragione. Fa male, tanto male sapere che un Paese già prostrato com’era nel lontano 2019, a meno che il recovery fund non faccia un triplo miracolo, potrebbe a breve sprofondare in una crisi sistemica ed economica.
Ma come ha fatto chi ci ha preceduto, ci corre l’obbligo di resistere e ci corre l’obbligo di farlo senza attendere. Sì, è dura e sarà probabilmente durissima, ma non è continuando a lamentarci ad ogni piè sospinto che possiamo venirne fuori.
Noi che la vita comoda l’abbiamo conosciuta a più riprese, siamo chiamati ad una prova inusitata e terribile: dobbiamo disegnare e creare il nostro futuro e quello dell’Italia. E che ci si creda o no, tutto partirà da come ognuno di noi saprà rimodulare il concetto di cosa comune. Nessuno potrà salvarsi da solo.
Elis Calegari
Resistenza
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