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lunedì, Aprile 21, 2025

    Un trittico di Gaudenzio Ferrari riscoperto

    Dal disegno al dipinto

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    Il rinnovato allestimento della sala dei cinquecenteschi Cartoni Gaudenziani, inaugurato il 5 dicembre 2019 alla Pinacoteca dell’Accademia Albertina di Torino, ha avviato un percorso di nuovi progetti di valorizzazione e di studio del patrimonio artistico. La Pinacoteca riprende dunque, dopo la pausa dettata dalla pandemia, il ciclo di mostre dedicate alle opere pittoriche realizzate nell’ambito della bottega gaudenziana, presentando per la prima volta al pubblico un trittico realizzato dallo stesso Gaudenzio Ferrari (1475/80-1546): uno fra i più significativi esponenti della pittura italiana del secolo XVI.
    Il trittico Madonna con il Bambino, san Giovannino e angeli. Santa Marta presenta una devota. Santa Dorotea presenta una devota, proveniente da una collezione privata, è visitabile sino al prossimo 16 ottobre, è esposto nella Sala dei Cartoni gaudenziani e, non a caso, la tavola destra è affiancata dal cartone numero 351 raffigurante Santa Dorotea con una devota, eseguito probabilmente dallo stesso Ferrari come traccia grafica. Alcuni studiosi, in passato, attribuirono la paternità del dipinto e del cartone a Giovanni Battista Giovenone, nipote di Gerolamo che fu uno dei più stretti collaboratori di Gaudenzio. Lo storico dell’arte Giovanni Romano nel 1990 assegnò definitivamente l’opera al Ferrari per “l’alta qualità della stesura pittorica”.
    Le indagini con la riflettografia infrarossa eseguita sul trittico durante il restauro del 2017-2018 hanno dimostrato la precisa corrispondenza del disegno preparatorio sulla tavola con il cartone e con la successiva impostazione della stesura pittorica.
    Il dipinto è stato realizzato ad olio su tre tavole in legno di pioppo: i pigmenti disciolti in oli siccativi sono stati stesi su un sottile strato di gesso sul quale si trovava il disegno preparatorio. Tra i pigmenti usati vi era il bianco di piombo, detto “biacca”, il cinabro e la lacca rossa, l’azzurrite e altri pigmenti a base di rame, un nero di natura organica e l’oro in foglie.
    Il trittico di Gaudenzio Ferrari è collocabile tra il 1535-40 poiché lo scomparto centrale ha come riferimento stilistico la Madonna degli aranci eseguita dall’artista, forse con l’aiuto di un collaboratore, verso il 1530 per la chiesa di San Cristoforo di Vercelli riproponendo l’impaginazione con puttini che arrampicati, qui su un melo (non un arancio) carico di fronde, foglie e frutti, sollevano un tendaggio rosso per permettere al fedele di contemplare l’epifania divina. Oltre a questi riferimenti di stile, la datazione è ascrivibile entro il quarto decennio del secolo XVI anche grazie alla foggia delle vesti delle due committenti. L’abito della dama presentata da santa Marta è un ampio robone in velluto nero; la giovane orante presentata da santa Dorotea indossa una lussuosa camora in velluto rosso, con catene d’oro e uno zibellino ingioiellato adagiato sull’avambraccio, secondo la moda diffusasi tra l’elite europea della prima metà del Cinquecento. È probabile che i costosi ornamenti siano stati aggiunti in fase d’opera su richiesta della committente poiché il gusto per lo sfarzo non era proprio dell’arte gaudenziana; inoltre non vi è traccia di questi dettagli nel cartone preparatorio.
    L’opera fu probabilmente realizzata per la chiesa di San Domenico di Chieri, dalla quale nel 1830 venne acquistata per 800 lire dall’avvocato Giuseppe Antonio Gattino, esponente di una delle più ricche e potenti famiglie del Regno di Sardegna. In quell’occasione venne fatto restaurare da Lorenzo Peretti, pittore-restauratore attivo a Torino per lo “Stabilimento dei quadri delle Reali Gallerie: l’intervento, che costò ben 300 lire, fu piuttosto impegnativo e interessò una pesante pulitura e successiva ridipintura, con l’aggiunta di particolari di gusto neogotico, molto in auge all’epoca.
    Al Gattino sopravvisse un’unica figlia che sposò il conte Ernesto Riccardi di Netro; quindi per vie ereditarie e vendite diverse (dalla Galleria Scopinich di Milano all’antiquario Pietro Accorsi di Torino), giunse nel 1936 alla famiglia degli attuali proprietari.
    Il catalogo, curato da Serena d’Italia, offre una interessante e accurata riflessione storico-scientifica sulla preziosa opera.

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