Ispirato dall’interessante editoriale di questo mese, del direttore Elis Calegari, ho deciso di offrire un punto di vista ulteriore (non necessariamente alternativo) al modo di intendere i social, nei tempi che viviamo.
Vorrei premettere due cose: i social sono fatti di persone e nascono neutri (anche se alcuni accorgimenti ingegneristici, li rendono più inclini alla polarizzazione, piuttosto che all’informazione).
Io provengo da una generazione in cui, davanti al TG della sera, si facevano i commenti su politica, cronaca, economia e sport. Sempre. E a casa, si sa, il pubblico è sempre stato molto limitato. C’erano anche i bar, le associazioni, gli oratori… tutte cose che, nel tempo, stanno perdendo la prominenza e la rilevanza assunta nel corso dei secoli (altro dramma, su cui bisognerebbe riflettere).
Quindi, l’avvento dei social, per tanti è stato il modo per ottenere un palcoscenico, a volte un pubblico e poter iniziare a discettare (a volte, sproloquiare) su qualsiasi argomento… esattamente come si faceva nell’intimità di casa, di fronte al TG.
La società è peggiorata? Io non credo. Semmai è peggiorata la percezione che abbiamo della società, visto che le statistiche Istat parlano chiaro. Le città sono più sicure; la salute è migliorata; esistono le cure a molte malattie, che anche solo 40 anni fa erano letali; mediamente, le persone sono più istruite.
E allora? Dove sta il problema?
Perché online respiriamo tutti un’aria così greve, sempre piena di tensione, come se bastasse una scintilla per far scoppiare un pandemonio? Una prima possibile causa è l’aumento esponenziale degli stimoli, che favorisce la reattività e la superficialità (se non ci diamo il tempo di valutare razionalmente, la decisione viene presa dal nostro cervelletto) ed ecco una prima spiegazione ai commenti inutilmente violenti e reattivi che, spesso leggiamo online.
Poi c’è l’annoso problema dell’analfabetismo funzionale, sempre più grave. Sappiamo quasi tutti leggere, ma molti non sanno decodificare nemmeno le istruzioni più semplici o comprendere il senso di un testo scritto.
E poi c’è un elemento tecnologico e di business da considerare.
I social, che nascono neutri, neutri non sono.
Hanno come obiettivo proprio la polarizzazione delle opinioni. Se da una parte tendono a farci trovare riscontri alle nostre idee, convinzioni, paure, dietrologie, ecc; dall’altra parte ci offrono la possibilità di sfogare quelle stesse tensioni, create dalle piattaforme stesse. Uso spesso citare Lao Tzu, per far comprendere meglio il mio pensiero, “fa più rumore un albero che cade di una foresta che cresce”. E i dissapori, i litigi, gli attacchi frontali e personali, su Facebook trovano terreno fertile, perché quando un post inizia a generare reazioni (commenti), l’algoritmo decide che deve essere portato all’attenzione di quanti più utenti possibili, in modo che lo vedano, lo leggano, ne leggano i commenti e, eventualmente, decidano di partecipare alla discussione.
Più tempo passiamo con un’app aperta, più pubblicità potremo vedere, più incassi potranno essere generati dal Facebook di turno. L’interesse primario di tutti questi servizi (non solo Facebook) è aumentare il tempo di permanenza e acquisire dati sui nostri interessi (per poter rifinire ulteriormente i messaggi pubblicitari che ci vengono proposti).
Io, da amministratore del gruppo Facebook più numeroso e attivo a livello locale, vedo tutti i dati sul numero di persone raggiunte. Sono migliaia. Eppure, quando un post genera tante reazioni, se arriva a 100/150 commenti è già tanto. E quindi, che spiegazione possiamo dare a questo squilibrio?
Semplicemente che il voyeurismo è insito nell’animo umano e, al di là del giudizio che possiamo dare sui comportamenti dei singoli, la rissa da social piace e coinvolge il pubblico (la stragrande maggioranza), che si siede in poltrona coi pop-corn in mano e si gode lo spettacolo (a volte deprimente).
Tolti gli aspetti meno edificanti, personalmente credo che Facebook, soprattutto in relazione ai gruppi, mantenga una sua utilità.
È indiscutibile il fatto che su Facebook ci siano cittadini che segnalano problemi e istituzioni e amministratori che leggono e, sovente, si attivano proprio da quelle segnalazioni.
Facebook è un punto di ascolto e di contatto… semmai, è un peccato che questo meccanismo di ascolto e intervento non venga fatto emergere pubblicamente.
Sono anni che vedo che una segnalazione sul gruppo Facebook sortisce quegli effetti che, a volte, non si ottengono nemmeno ingaggiando direttamente l’URP. Far sentire i cittadini ascoltati e dar loro modo di poter usare (nei limiti) uno strumento semplice, immediato, in grado di creare le condizioni per risolvere velocemente i problemi, è importante e andrebbe strutturato come qualcosa di cui andar fieri.
Buche per le strade, rovi che invadono i marciapiedi, sottopassi allagati o innevati, rifiuti abbandonati, e chi più ne ha più ne metta. Ci sono diversi assessori e consiglieri (in questa amministrazione, ma anche nella precedente), che pur non avendo mai “dato segni di presenza attiva”, hanno sempre dimostrato una grande disponibilità e reattività alle segnalazioni pervenute online. Il gruppo che amministro è pieno di esempi.
Anzi, colgo l’occasione di questo articolo per ringraziarli, anche a nome dei concittadini.
Questo è un esempio di uso virtuoso di uno strumento che, sovente e semplicisticamente, viene bollato come vomitatoio di odio e tensioni.
Quante belle iniziative hanno visto una grande partecipazione, sicuramente grazie anche al tam tam social? Le prime che mi vengono in mente: le iniziative per raccogliere i rifiuti lungo la Stura, la “Just the woman I Am” del Marzo scorso e molte altre attività che, altrimenti, avrebbero visto la partecipazione di chi è vicino all’organizzazione e le cose le sa a prescindere.
Quindi, per concludere, i social possono essere ugualmente usati in maniera virtuosa o deprimente.
Con un po’ di impegno da parte di tutti, l’uso virtuoso può compensare ampiamente chi, per parafrasare Umberto Eco, parlava solo al bar e dopo un bicchiere di vino, se diceva sciocchezze, veniva subito messo a tacere, “mentre ora ha lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel.”