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giovedì, Aprile 17, 2025

    1973

    Mi è tornata tra le mani una vecchia fotografia del 1973. In bianco e nero. Ci sono io, indosso l’eskimo, c’è una fitta nebbia e tanto freddo: immortala la giornata in cui con i miei compagni di scuola prendemmo le bici per raggiungere proprio Caselle.
    Tanto freddo e molta fatica per percorrere i chilometri dall’allora Comunale fino a qui, imbacuccati come non mai per proteggerci.
    Nebbia e strade deserte in quell’inverno del 1973.
    Le chiamavano le domeniche dell’austerity: l’inglesismo appariva più carino e accettabile che non “austerità”.
    A distanza di quasi cinquant’anni mi pare impossibile si fosse giunti ad una simile decisione: addirittura ci sembrò bizzarra, quasi simpatica, comunque accettabile. La domenica si fermava tutto, ma proprio tutto, senza distinzione: auto, moto, motorini, negozi chiusi e luci spente, il TG che all’epoca andava in onda alle 20,30 fu anticipato alle 20, orario rimasto invariato ancora oggi.
    Non erano le uniche misure per far fronte al caro petrolio e di conseguenza al resto; durante la settimana tutto era ridotto: chiusura anticipata di uffici e negozi, la velocità dei veicoli fu ridotta anch’essa.
    Una misura rimasta nella storia, unica ed irripetibile, ma tutti ci adattammo alla nuova situazione: allora non erano ancora nati i negazionisti, i complottisti, i “no tutto”, i “non ce lo vogliono dire”, e coloro che cercavano di “svegliare” la massa non erano ancora tra noi, e gli unici “social” erano i campetti dove giocavamo, e i citofoni con i quali ci chiamavamo a raccolta.
    L’imbecillità dilagante dei cosiddetti social sarebbe arrivata molto tempo dopo.
    Cogliemmo il meglio dalla situazione insolita per tutti: il silenzio della domenica era irreale, rotto solo dal vociare delle persone in strada, i passi, i campanelli delle ritrovate biciclette, tante bici.
    Affrontammo di buon grado questa anomalia, e non ricordo particolari opposizioni in merito, anzi, per noi ragazzi la possibilità di scorrazzare in mezzo alla strada fu inebriante.
    Passò come tutte le crisi, senza particolari traumi, anche perché i negozi e i supermercati chiusi la domenica erano una normalità.
    Mio papà non aveva la macchina, quindi anche il concetto di gita domenicale fuori porta mi era sconosciuto, e la cosa non cambiò più di tanto le nostre abitudini.
    2022: la crisi si ripresenta. Meglio dire le crisi, al plurale, ma fermiamoci su quella degli approvvigionamenti di gas, dovuta alla guerra, alla speculazione soprattutto. Ascolto quotidianamente le proposte per farvi fronte e il panorama è vastissimo: dalla doccia in due, alla pasta col fuoco spento dopo l’ebollizione.
    Mi accodo anch’io agli “specialisti”; certo la domenica a piedi come nel ’73 è impensabile: Byoblu si scaglierebbe contro il nuovo ordine mondiale e le menti fertili vedrebbero l’ennesimo complotto, ma penso si possano adottare soluzioni alla portata di tutti. Partiamo dai supermercati: giorni fa entrando mi sono maledetto per non aver pensato a una maglia vista la temperatura polare; uscendo mi colava il naso. Lo stesso per i negozi del centro, che spesso tengono temperature da Jacuzia salvo poi alzarle in inverno tipo tropico del nord, il tutto rigorosamente e ostinatamente con le porte spalancate.
    Se il lavoro nelle aziende può essere fatto da casa perché non farlo: lo so, si utilizzerebbe la propria corrente, vero, ma tanto abbiamo di tutto in stand by anche se andiamo in ferie due settimane…frigo, congelatore, e così via.
    Penso anche alle riunioni a scuola tra insegnanti e genitori: perché non farle online? Famiglie a casa, più tranquille, senza dover piazzare i pargoli per correre a scuola magari in macchina, incrementando così traffico e inquinamento, ed anche una buona dose di stress, e senza tener acceso il riscaldamento e le luci nei locali preposti agli incontri.
    E le partite? Perché giocarle in notturna con un consumo enorme di corrente?
    Poi, certo, mille altri accorgimenti, o rinunce, da affrontare. Tutti. Controvoglia e con sacrificio.
    Una cosa dev’essere chiara: c’era un prima fatto anche di sprechi per qualunque attività umana, e c’è un dopo.
    Speriamo ci sia un domani.
    Torno alla mia foto.

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    Luciano Simonetti
    Luciano Simonetti
    Sono Luciano Simonetti, impiegato presso una azienda facente parte di un gruppo americano. Abito a Caselle Torinese e nacqui a Torino nel 1959. Adoro scrivere, pur non sapendolo fare, e ammiro con una punta di invidia coloro che hanno fatto della scrittura un mestiere. Lavoro a parte, nel tempo libero da impegni vari, amo inforcare la bici, camminare, almeno fin quando le articolazioni non mi fanno ricordare l’età. Ascolto molta musica, di tutti i generi, anche se la mia preferita è quella nata nel periodo ‘60, ’70, brodo primordiale di meraviglie immortali. Quando all’inizio del 2016 mi fu proposta la collaborazione con COSE NOSTRE, mi sono tremati i polsi: così ho iniziato a mettere per iscritto i miei piccoli pensieri. Scrivere è un esercizio che mi rilassa, una sorta di terapia per comunicare o semplicemente ricordare.

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