“Essere o non essere: questo è il problema: se sia più nobile all’animo sopportare gli oltraggi, i sassi e i dardi dell’iniqua fortuna, o prender l’armi contro un mare di problemi e combattendo disperderli.
Morire dormire; nulla più: – e con un sonno dirsi che poniamo fine al dolore e alle infinite miserie, naturale retaggio della carne, è soluzione da desiderare ardentemente.
Morire – dormire – sognare, forse: ma qui è l’ostacolo che ci trattiene: perché in quel sonno della morte quali sogni possan venire, quando noi ci siamo sbarazzati di questo groviglio mortale: è la remora, questa, che di tanto prolunga la vita ai nostri tormenti.
Chi vorrebbe, se no, sopportar le frustate e gl’insulti del tempo, le angherie del tiranno, il disprezzo dell’uomo borioso, gli spasimi dell’amore disprezzato, gli indugi della legge, l’insolenza di chi è investito di una carica, e gli scherni che il merito paziente riceve dai mediocri, quando di mano propria potrebbe saldare il suo conto con due dita di pugnale?
Chi vorrebbe caricarsi di grossi fardelli imprecando e sudando sotto il peso di tutta una gravosa vita, se non fosse il timore di qualche cosa (che) confonde la volontà, e ci fa piuttosto sopportare i mali che abbiamo, che non volare verso altri che non conosciamo?
La coscienza ci fa tutti vigliacchi; così la tinta naturale della determinazione si scolora al cospetto del pallido pensiero. E così imprese di grande importanza e rilievo per questo riguardo deviano il loro corso: e dell’azione perdono anche il nome.”
Così Amleto nella prima scena del terzo atto della tragedia composta da William Shakespeare.
Si provi a soppesare ogni parola, ogni pausa e ci si interroghi.
Così anche noi? Meglio essere o desiderare di non essere? Abbiamo ancora la forza per spingerci a vivere anche qualcosa che ancora non conosciamo?
L’incertezza, la paura che l’attualità ci riversa addosso obnubila. La reazione ci spinge a voltarci, a non vedere e andare oltre.
Oltre, ma dove.
È vana la speranza figlia di occhi chiusi.
Può essere una soluzione quella di rinchiudersi ognuno nel proprio “particulare”, limitandoci solo a commenti astiosi e addebitare il tutto all’avversa fortuna?
Gl’insulti del tempo li stiamo toccando: Torino non è più quella che era e non s’intravede quella che potrebbe essere. La virtuosa riconversione industriale non è mai avvenuta e facciamo fatica a recidere un cordone ombelicale da una madre che non ci vuole più. Un possibile sentiero potrebbe essere tracciato candidandoci a promuovere cultura e territorio, ma i budget a disposizione sono ben poca cosa. E poi basta vedere di che cosa non siamo stati capaci in cinque anni di ATP Finals. D’accordo, le edizioni disputate a Torino finora sono state quattro, ma la rincorsa è partita ben prima. D’accordo, c’è stato il Covid a tarpare le due prime volte, ma ‘sta storia è diventata un alibi.
Un alibi che fa pure male a Caselle. In cinque anni non siamo riusciti a collegare con treni decenti il nostro aeroporto alla città. La ricettività continua a essere scarsa, i parcheggi attorno alla Inalpi Arena latitano come i taxi e i mezzi pubblici. E questo sarebbe cogliere l’occasione mentre tutti gli occhi del mondo sono puntati su di noi?
Che ci si creda o no, a volte il futuro passa anche attraverso una palla e una racchetta.
Che si creda o no, da noi il futuro passa e poi va a Milano. Facciamo troppo poco perché questo non accada. Forse le ATP Finals rimarranno qui da noi ancora fino al ’27, ma poi…
C’è un oltre? C’è un dove?
Brutta cosa cercare a occhi chiusi.