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martedì, Aprile 15, 2025

    Quando saremo… “piccoli”

    Da anni ormai, almeno per una quindicina di giorni tra gennaio e febbraio, da noi non succede nulla che la televisione pubblica consideri degno di essere raccontato. Non farebbe eccezione neanche una improvvisa crisi di governo, peraltro sempre in agguato, oppure l’eventualità molto più remota di un trionfo granata nel derby calcistico cittadino. Programmi di informazione e di intrattenimento ricorrono alle loro migliori risorse per mostrare, commentandole regolarmente con preoccupante banalità, le immagini del prima, del durante, e del dopo di un evento che nato all’inizio degli Anni Cinquanta, puntuale come un orologio svizzero , compie quest’anno i suoi trequarti di secolo facendo rivivere ogni volta, a chi può ricordarlo, il profumo appassito dei fiori di Nilla Pizzi, inattesi ma graditi, il volteggiare di una patriottica colomba bianca messaggera d’amore, e soprattutto l’interminabile sogno dipinto di blu in cui per anni inconsapevolmente abbiamo cullato tante fortunate speranze. È il festival di Sanremo, che molta gente sostiene sdegnosamente di ignorare per poi ritrovarsi, quasi per una intera settimana, con la coperta a scacchi sulle ginocchia, la stessa che di giorno opportunamente distesa provvede a nascondere le ferite di un divano troppo vecchio. Resistono tenacemente, questi curiosi, improvvisati nottambuli, alle insidie del sonno e del primo freddo della lunga serata, e poco importa se il prodotto dell’ appuntamento canoro risulta molte volte di una qualità scadente, solo saltuariamente sconfitta da qualche rara eccezione che rimetta al giusto posto amore e sentimenti. E dall’irrompere di un sentimento, allo stesso tempo antico e nuovo, è stato attraversato quest’anno il festival che, oltre alla presenza maggiormente garbata e credibile di alcuni giovani artisti, ha proposto in musica e poesia, grazie ad una commovente testimonianza filiale, il dramma di tante persone anziane, sole e ammalate a cui la vita, protraendosi oggi maggiormente rispetto a ieri, offre ormai soltanto il conforto della presenza anagrafica.

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    Anche noi che, a passo lento senza forzare l’andatura ci stiamo avviando verso il traguardo, per gli imprevedibili capricci del destino o per l’accanirsi di circostanze avverse, un giorno potremmo scoprire di essere tornati piccoli. E chissà se avremo vicino qualcuno che ci aiuterà a capire chi siamo, che avrà la pazienza di rallentare il proprio passo per poterci accompagnare o che semplicemente vorrà tenere la nostra mano tra le sue.

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    Chissà se qualcuno, a cui abbiamo dato soltanto amore e che la vita per le proprie esigenze ha portato lontano da noi, troverà il tempo oppure il desiderio di restituirci parte di quello stesso amore, non per la necessità di sdebitarsi ma semplicemente perché ne avremo bisogno.

    Non so che nome abbiano questi pensieri, questi sentimenti che tento inutilmente di allontanare, mentre, con malinconia, rifletto. Poi, seppur a ora tarda, ancora seduto su quel vecchio divano, prima di consegnarmi a un sonno che sicuramente tarderà ad arrivare, mi consento l’illusione di tornare, almeno per qualche attimo, indietro nel tempo a vedere e ricordare quando a Caselle nel cortile in fondo al vicolo bambini chiassosi impegnati nella difficile arte del crescere e persone vecchie ancora prodighe di esempi e di consigli davano un senso alla vita che fioriva o che, molto più serenamente di oggi, alla fine si allontanava.

    E serenamente da quel cortile e dalla sua gente un giorno si è congedata magna Pinota come la chiamavamo tutti.

    Era una donna robusta, con pochi capelli bianchi, senza età, senza parenti, e priva di corone del rosario tra le mani, compagne quasi inseparabili di persone anziane che si ritengono bisognose di perdono anche per peccati che non commettono. Seduta fuori dallo stanzone dove abitava a piano terra, con lo sguardo fisso in avanti interrogava per gran parte della giornata le pietre intorno e lo specchio d’acqua della vicina pozzanghera per tentare di ritrovarvi un passato che le parlasse ancora d’amore o per ricevere, nonostante l’età, rassicurazioni sul proprio futuro a cui si apprestava fiduciosa ogni giorno contando sulla vicinanza della gente del cortile, e sul conforto di qualche generoso bicchiere di vino.

    Non disdegnava neppure, numerose volte nella giornata, un pizzico di “Santa Giustina “, la polverina di color marrone vellutato, custodita in tabacchiere minuscole e civettuole, che con mano tremante portava al naso. Spesso le tracce di questa innocente abitudine si depositavano sugli abiti neri di magna Pinota che, con qualche disappunto e un poco di vergogna, inutilmente tentava di nascondere.

    Sul festival di Sanremo nel frattempo è calato il sipario, e forse anche sulle parole e la musica di quella poesia.

    Con il coraggio di chi non ha coraggio, mentre il primo sole di questo interminabile inverno annuncia a fatica l’ennesima primavera, oggi ho scelto di pensare a lei.

    A magna Pinota.

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