C’è un ”altro mondo”, forse parallelo a quello occidentale, dove gli opposti convivono in un’apparente inespugnabile armonia, dove nulla viene urlato e, anche le parole, contengono una incredibile densità di significati: è un mondo affascinante quello del “Sol Levante”, lontano anni luce dal nostro e forse proprio per questo diventato un mito, con un numero sempre più crescente di estimatori. Per Luca Baiotti, il Giappone è stato prima una scoperta e poi una scelta di vita: il luogo in cui lavorare stabilmente e in cui costruire la propria famiglia insieme alla moglie e al figlio. Setchuu è la parola giapponese che racchiude la sua storia, termine che indica il prendere e mettere insieme le parti migliori di due o più cose o modi pensare. Parola perfetta per diventare anche un buon auspicio, un augurio per il futuro del ”nostro mondo”.
“Vivo da 17 anni in Giappone – racconta Luca – ma a Caselle risiede la mia famiglia e lì sono i ricordi dei miei primi vent’anni: i giochi nel cortile, le esplorazioni intorno alla Stura, il coro e l’ organo nelle chiese, per citarne alcuni di quelli fuori casa. Mi è sempre piaciuto studiare, in particolare tutto ciò che concerne le scienze e le lingue. Dopo il Liceo Scientifico a Ciriè, mi sono laureato in Fisica all’Università di Torino e ho proseguito il dottorato presso la SISSA (Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati) a Trieste, dove ho iniziato la ricerca su onde gravitazionali e stelle di neutroni. Successivamente ho ottenuto un ”post-doc”, ossia un contratto di ricerca di tre anni, a Potsdam, vicino a Berlino, nella ex-Germania dell’Est: qui la ricerca riceve ottime sovvenzioni, il sistema è efficiente e il proprio lavoro viene giustamente valorizzato; ma, a causa del clima troppo fresco per buona parte dell’anno, è stata solo un’esperienza temporanea. Tra i miei interessi c’è da sempre anche quello per la linguistica: mi piace studiare le lingue, oltre a quelle più vicine come inglese, francese, spagnolo e tedesco, mi affascinano quelle molto distanti dalle nostre come cinese e arabo, che però non parlo più, e il giapponese, a cui mi sono avvicinato ai tempi del dottorato, quando conobbi dei ricercatori da lì provenienti. Quello è stato il mio primo approccio alla cultura nipponica, che ho poi avuto modo di conoscere meglio in un viaggio di lavoro per alcune conferenze: mi sono da subito sentito a mio agio, ho apprezzato la gentilezza delle persone, la sicurezza e l’efficienza, la bellezza dei paesaggi naturali. Anche il fatto che la prima conferenza giapponese cui ho partecipato fosse sull’isola semitropicale di Okinawa ha avuto la sua influenza su di me. Così ho pensato che sarebbe stato bello poter vivere in Giappone, ho fatto domanda per un altro contratto e ho vinto una borsa di ricerca di due anni, dopo la quale sono diventato assistente e, in seguito, professore associato di Fisica all’Università di Osaka. Attualmente insegno agli studenti stranieri, per lo più di nazionalità asiatiche, gli italiani sono pochi. Come ricercatore, mi occupo di studiare onde gravitazionali, stelle di neutroni e buchi neri. Le onde gravitazionali sono perturbazioni dello spazio-tempo che si propagano alla velocità della luce. Per quanto ne sappiamo, non avranno applicazioni tecnologiche, ma ci portano informazioni appunto su stelle di neutroni, buchi neri e anche sull’origine dell’universo, venendo incontro all’umana sete di conoscenza.
Pur operando in un sistema di eccellenza, attualmente la ricerca fondamentale risulta in crisi anche in Giappone, in quanto sta ricevendo meno fondi, perché questo stato sta cercando di riprendere competitività in campi come semiconduttori, robotica e intelligenza artificiale, dirottando in queste aree la maggior parte delle risorse.
Abito con la mia famiglia nell’hinterland di Osaka, a poca distanza dalle montagne; non amo la frenesia dei grandi centri urbani, prediligo passeggiare in mezzo alla natura, scoprire gli animali, i paesaggi e anche i piccoli santuari nascosti. Dedico a mio figlio di 8 anni la maggior parte del mio tempo libero, anche partecipando come genitore alle tante attività che hanno a che fare con la scuola internazionale che frequenta. Abbiamo scelto di non mandarlo a una scuola giapponese perché non ne condividiamo i metodi educativi improntati soprattutto sullo studio mnemonico e con una forte componente di reggimentazione, volta a forgiare individui che non protestino troppo. Lo illustra bene il famoso detto giapponese: “deru kui wa utareru “, cioè “il chiodo che sporge viene martellato”, che significa che chi esce dal coro viene punito. In questo rigido sistema, per la maggior parte degli studenti l’unico scopo diventa quello di superare l’esame di ammissione a una buona università, per poi, spesso, perdere interesse per lo studio; nel sistema vigente, una volta ammessi a un’università giapponese è relativamente facile laurearsi. Sono due delle facce del Giappone: accanto a quella di un’apparente ultra-modernità tecnologica, ne esiste una fortemente conservatrice e “resiliente” a ogni cambiamento. Persino il populismo che sta stravolgendo molta politica internazionale qui è solo una lontana eco, irrilevante. Vivere in Giappone da straniero ben integrato è l’optimum perché si può contribuire a pace, armonia e coesione sociale: il famoso “wa” del Paese, ma non si è costretti del tutto all’omologazione sociale, che ha un peso preponderante nella vita dei giapponesi. Mi sento un privilegiato perché vivo il meglio di due culture diverse. Sarà poi mio figlio, metà italiano e metà giapponese, a scrivere il futuro.”